(The Stranger vs Goodbye Yellow Brick Road)
Billy Joel ed Elton John li hanno sempre messi uno accanto all’altro. Uomini al piano, autori di hit, padroni degli stadi. Le somiglianze di superficie sono così evidenti che sembra inevitabile paragonarli.
Eppure, se metti in cuffia i loro due dischi-manifesto, The Stranger (1977) e Goodbye Yellow Brick Road (1973), la rivalità sparisce. Resta solo una divergenza enorme.
Due idee opposte di cosa potesse essere il pop.
Il piano come confessione, il piano come spettacolo
In The Stranger il pianoforte di Billy Joel è uno strumento narrativo, quasi timido. Non fa mai il fenomeno.
Ascoltate l’attacco di “Vienna”: quattro note lente, esitanti, come se stesse ancora decidendo se dirti o no quella cosa lì. “Scenes from an Italian Restaurant” è un piccolo film di otto minuti girato dentro un bar del Queens. Il piano c’è, ma non urla: sussurra, sottolinea, lascia spazio alle parole.
Su Goodbye Yellow Brick Road il pianoforte è il protagonista assoluto, un divo con il cappotto di lustrini. “Funeral for a Friend” parte come un organo da cattedrale gotica e undici minuti dopo è un’astronave di sintetizzatori che decolla. Elton non accompagna la canzone, la interpreta come un attore shakespeariano. È teatro puro, glam, eccesso calcolato.
Joel tira dentro. Elton fa esplodere tutto fuori.
Realtà contro fantasia
The Stranger è un album di personaggi in carne e ossa: camerieri che sognano di scappare, cattolici che si sentono in colpa, donne che cambiano idea ogni cinque minuti. “Only the Good Die Young” scandalizzò perché sembrava vero, non perché fosse esagerato. “She’s Always a Woman” è un ritratto spietato dell’amore adulto, di quelli che lasciano il segno.
Goodbye Yellow Brick Road invece vuole proprio andarsene dalla realtà. Il titolo già lo dice: addio al mondo di Oz, via dal grigio. “Bennie and the Jets” è un concerto immaginario in un futuro glitterato, “Candle in the Wind” è già un mito prima ancora che succeda la tragedia. Bernie Taupin scrive poesie surreali, Elton le trasforma in arene.
Uno ti fa riconoscere la tua vita, l’altro te la fa dimenticare per quaranta minuti.
Chi comanda davvero
Billy Joel scrive testi e musica. Tutto. The Stranger è un monolito: una sola testa, una sola voce, una sola logica interna. Anche quando cambia stile lo fa perché ha deciso lui, punto.
Elton John riceve i fogli di Bernie Taupin e li trasforma in film. Non è meno personale, è semplicemente diverso: meno confessione, più regia. Il risultato è meno diario intimo e più kolossal.
Entrambi i metodi funzionano, ma ti portano in posti lontanissimi.
Hit silenziosi, hit urlati
Entrambi gli album hanno sfornato classici immortali, ma li servono in modo diverso.
“Just the Way You Are” sembra una carezza, eppure nasconde una precisione chirurgica sull’amore condizionale. “Movin’ Out” fa ballare e intanto ti racconta la trappola del sogno americano.
Goodbye Yellow Brick Road invece arriva già con il cartellone “capolavoro” appeso fuori. La title track è un inno di addio lungo sette minuti, “Saturday Night’s Alright” è una rissa da pub trasformata in rock’n’roll da stadio. Non chiedono permesso: prendono la scena e basta.
Due domande, due risposte perfette
Billy Joel si è chiesto: Come dico la verità senza perdere chi ascolta?
Elton John si è chiesto: Quanto in grande può diventare una canzone pop prima di crollare sotto il suo stesso peso?
Entrambi hanno avuto ragione.
Nel 1977 c’era spazio per l’intimità sussurrata e per lo spettacolo pirotecnico. Billy Joel ti invitava a casa sua per un caffè amaro e due chiacchiere vere. Elton John ti portava a teatro, tutto esaurito, luci sparate in faccia, prima fila obbligatoria.
Oggi quel doppio binario sembra più stretto.
Per questo riascoltare The Stranger e Goodbye Yellow Brick Road uno dopo l’altro, a cinquant’anni di distanza, fa ancora un effetto pazzesco.
Due modi di essere pop.
Due modi di essere immortali.
Senza mai pestarsi i piedi.